Una piccola premessa per spiegare il perché di questo intervento: mi sono occupato di ragazzi con gravi disabilità per tutta la vita, prima come insegnante di sostegno nella scuola media, ora come pensionato e volontario presso l’associazione Vedrai… di Ovada; al tempo stesso sono stato attivo nel movimento per la pace dalle lotte contro la guerra del Vietnam e per il disarmo agli inizi degli anni Settanta fino ad oggi intrecciandole sempre più alla nonviolenza.
E’ importante che nonviolenza e disabilità non procedano come mondi separati ma sappiano interagire in modo che ci sia uno scambio di esperienze e di obiettivi. La disabilità è un arcipelago assai vasto e frastagliato: si pensi alle tante tipologie di disabilità motorie; alle psicosi, all’autismo; oppure all’afasia e alle altre gravi compromissioni del linguaggio; al ritardo mentale causato da danno cerebrale a seguito di disparate patologie; alla sindrome di Down e alle molte centinaia di sindromi genetiche scoperte e studiate dalla medicina; all’epilessia. Ci sono poi le disabilità sensoriali: sordità, cecità, ipovedenza che costituiscono un mondo a parte rispetto alle altre disabilità e che non prendo in considerazione in questo intervento. Tenendo presenti queste profonde differenziazioni ci possiamo porre l’interrogativo di come venga vissuta la nonviolenza da una persona con disabilità.
Per semplificare possiamo dire che la nonviolenza può essere vissuta in modo passivo oppure in modo attivo. C’è sicuramente una nonviolenza passiva causata dalle condizioni fisiche o psichiche che rendono incapaci di essere violenti: “Sono nonviolento perché non posso o non so essere violento”: questa condizione simboleggia la mancanza di autonomia della persona disabile sia a livello individuale sia a livello sociale. Come si relazionano le persone che possono scegliere di essere violente o di essere nonviolente rispetto a quelle con disabilità? Troppe volte l’atteggiamento è quello di chi vanta una superiorità cognitiva e decisionale che si traduce da un lato in forme di pietismo, dalla classica “pacca sulla spalla” al solito “poverino, che disgrazia!”; dall’altro si manifesta nel procedere alle scelte politiche, economiche, sociali, culturali senza tenere conto della nonviolenza espressa dalle persone con disabilità. “Io non posso partecipare alla guerra ma tu decidi anche per me di fare una guerra”: pensiamo alle guerre cui l’Italia ha partecipato dal 1991 (prima guerra del Golfo) fino ad oggi violando la Carta Costituzionale, quella che dovrebbe accomunarci tutti in un patto comune. Analogo discorso vale per il terrorismo, che nella sua pratica non finge neppure un minimo di salvaguardia per i gruppi più indifesi della società (“bambini, vecchi, disabili…”) ma colpisce indifferentemente nel mucchio.
Come pure le violazioni dei diritti umani finiscono per aggiungere alla società ulteriori sofferenze che vanno ad aumentare i diritti già spesso mortificati o quanto meno poco sviluppati della persona disabile.
Una riflessione particolare riguarda le persone con gravi disabilità psichiche, soprattutto psicosi e schizofrenia, quando la loro condizione si esprime con aggressività su se stessi o sugli altri, anche in forme violente. E’ indispensabile capire per ogni persona come si origina questa aggressività, per cercare di intervenire sulle cause e così ridurla o anche estinguerla. La rivoluzione portata in Italia cinquant’anni fà da Franco Basaglia e dal movimento di Psichiatria democratica con la chiusura dei manicomi ha tolto campo a quella che era l’aggressività indotta nei malati dalla violenza della istituzione manicomiale. Si è aperta così rispetto alle persone con disabilità psichica la possibilità di capire e curare: spesso è un’aggressività dovuta alla paura; oppure alla difficoltà di farsi capire comunicando con gli altri; oppure causata dalle stereotipie comportamentali dilaganti nel momento in cui trovano la contrarietà da parte di altri.
Vendendo alla nonviolenza attiva penso che essa sia presente nelle persone disabili, anche in quelle con più gravi disabilità. Si esprime nella vita quotidiana, nelle relazioni della persona disabile con gli altri. Si può sintetizzare, facendo un notevole sforzo di generalizzazione, in almeno tre punti: l’espressione di sentimenti autentici; l’immediatezza disinteressata nel vivere la relazione; la continua ricerca dell’affidamento all’altro.
Espressione di sentimenti autentici: i sentimenti sono sempre autentici e quelli predominanti sono l’affettuosità, la sincerità, la mancanza dell’odio e del concetto di nemico. L’affettuosità è il tratto predominante della persona con grave disabilità, sia in entrata che in uscita. Può essere richiesta o manifestata verso i coetanei disabili, i famigliari, gli insegnanti, gli operatori e in generale le persone con cui vengono a contatto. La sincerità è immediata, è il contrario dell’ordire trame, sotterfugi, tatticismi: non mi riferisco tanto al linguaggio verbale – dove si possono trovare bugie e invenzioni – quanto al modo di porsi con il proprio comportamento, dove è impossibile cogliere un secondo fine. La mancanza di odio e del concetto di nemico non è solo indotta in modo passivo dalla disabilità stessa bensì è frutto della ricerca di una relazione positiva, costruttiva con tutte le persone con cui si viene a contatto, senza pregiudizi. Questo non significa che per il disabile tutte le persone siano uguali, indefinite: anzi a livello emotivo egli coglie le differenze ed esprime preferenze.
Immediatezza nella relazione: non ci sono le consuete mediazioni proprie delle relazioni interpersonali. Si pensi all’approccio utilitaristico, al “dare per avere” a livello economico ma anche a livello di bisogni o di affetti; oppure all’arrivismo o al carrierismo che caratterizzano la società contemporanea. L’immediatezza vissuta costantemente è una ricchezza, crea l’humus indispensabile al dispiegarsi della nonviolenza.
Affidamento all’altro: la vita della persona disabile è un continuo cercare l’altro per affidarsi a lui, per cercare le sue cure, il suo aiuto, la sua guida. Potremmo definire questa un’azione di “lotta nonviolenta” in quanto impone all’altro l’abbandono di qualsiasi atteggiamento di indifferenza; lo investe di grandi responsabilità; gli impone l’ascolto in alternativa al rifiuto. L’altro che lascia affidare a se stesso il disabile fa una scelta di abbandono di ogni forma di violenza.
Tutto bello, si potrebbe dire: ma restiamo pur sempre circoscritti alla vita quotidiana. Come passare alla società, alla politica, alla storia? Come evitare che questi valori portati dalle persone con disabilità restino rinchiusi tra le mura di casa, limitati allo stretto ambito locale? Qui ci dobbiamo collegare al dibattito da sempre presente sul rapporto tra nonviolenza come testimonianza individuale e nonviolenza come capacità di tradurre i suoi contenuti in Politica (sempre meglio mettere una P maiuscola). Può una persona con disabilità partecipare a questa sintesi più generale? Quando lo può fare in proprio e quando la sua delega va interpretata dalle persone cui si è affidato? Sarà importante rispondere a queste domande partendo da fatti, da sperimentazioni concrete, da risultati raggiunti.
Pietro Moretti